I 60 anni dell'album Song of My Father

Nel 1965 la Blue Note pubblicava un album destinato a lasciare un segno profondo nella storia del jazz: 

Song for My Father, capolavoro di Horace Silver, pianista, compositore e bandleader tra i fondatori dell’hard bop. Sessant’anni dopo la sua registrazione, quell’album continua a vibrare con forza e autenticità, mescolando eleganza compositiva, radici culturali e una sensibilità melodica capace di parlare a chiunque, anche a chi si avvicina al jazz per la prima volta.

Ma Song for My Father è molto più di un disco bello o ben suonato: è un’opera d’arte carica di affetti, influenze e visioni, nata in un momento in cui il jazz stava cercando nuovi linguaggi senza dimenticare le proprie origini.

Il titolo dice già molto: Song for My Father è una dedica affettuosa e musicale al padre di Horace Silver, John Tavares Silva, immigrato capoverdiano, sbarcato negli Stati Uniti all’inizio del Novecento. Horace, figlio di madre afroamericana e padre capoverdiano, crebbe in Connecticut immerso in una miscela di musiche: la musica da chiesa, il blues, lo swing e le melodie popolari portoghesi e africane che il padre canticchiava a casa. Quegli echi si sarebbero fusi, anni dopo, nella composizione che dà il titolo al disco: una melodia cantabile, malinconica ma ritmicamente accattivante, costruita su un ostinato al pianoforte che sembra una carezza.

Il brano fu scritto dopo un viaggio in Brasile, dove Silver fu colpito dal calore delle persone, dai ritmi della samba e della bossa nova, ma anche da un sentimento profondo di spiritualità, nostalgia e appartenenza che sentiva vicino alla propria identità. Questa fusione tra jazz, ritmo afro-latino e cantabilità popolare divenne il cuore del suo stile, e Song for My Father ne è l’esempio perfetto.

Registrato in due diverse sessioni (ottobre 1963 e ottobre 1964), l’album riunisce due quintetti differenti ma ugualmente coesi. Nella title track troviamo una delle versioni più brillanti del gruppo di Silver, con Joe Henderson al sax tenore e Carmell Jones alla tromba, accompagnati da Teddy Smith al contrabbasso e Roger Humphries alla batteria. Nell’altra metà dell’album, spiccano Blue Mitchell alla tromba, Junior Cook al sax, Gene Taylor al contrabbasso e Roy Brooks alla batteria.

Nonostante i cambi di formazione, l’album mantiene una precisa direzione stilistica: groove incalzanti, melodie nitide, strutture chiare e assoli sempre funzionali alla narrazione musicale. Silver dirige con maestria, usando il pianoforte come motore armonico e ritmico, più che come strumento solista. Il suo tocco è bluesy, incisivo, spirituale: ascoltando The Natives Are Restless Tonight o Calcutta Cutie, si percepisce il senso del racconto, il desiderio di comunicare qualcosa di emotivamente reale, più che mostrare virtuosismi.

Song for My Father è anche uno degli album jazz più influenti sul mondo del pop e del rock. Il suo celebre intro di pianoforte, ad esempio, è stato ripreso nota per nota dai Steely Dan per la loro hit Rikki Don't Lose That Number del 1974. Ma la portata dell’influenza di Silver è molto più vasta: il suo modo di fondere elementi africani, latinoamericani, gospel e blues ha anticipato quella visione del jazz come linguaggio globale che esploderà di lì a poco con figure come Pharoah Sanders, McCoy Tyner o Carlos Santana in ambito rock-fusion.

È anche un disco che ha trovato spazio nella cultura hip hop e nei campionamenti soul-jazz degli anni '90 e 2000, contribuendo a far conoscere Silver a una nuova generazione di ascoltatori. In questo senso, Song for My Father è un album senza tempo: dialoga con il passato, ma non ha mai smesso di essere contemporaneo.

All’epoca della sua pubblicazione, il disco fu un grande successo per gli standard del jazz: vendette molto bene, ebbe un’ottima accoglienza critica, e contribuì a rafforzare il legame tra il pubblico e il sound Blue Note. Song for My Father è oggi considerato non solo un classico, ma una delle opere fondamentali del catalogo dell’etichetta.

Horace Silver fu uno dei primi jazzisti a costruire un proprio stile fortemente personale e riconoscibile, con composizioni strutturate, groove ballabili e una capacità rara di unire spiritualità, melodia e swing. Questo album è la sintesi di tutto ciò.

Riascoltare Song for My Father a sessant’anni di distanza è un’esperienza che non ha nulla di nostalgico o museale. È un disco che parla ancora oggi: per la sua sincerità, per la bellezza delle linee melodiche, per la freschezza degli arrangiamenti. È un lavoro che unisce tecnica e cuore, memoria e apertura, e che continua a ispirare chi crede che la musica possa essere, prima di tutto, un atto d’amore.

In un’epoca in cui il jazz è più che mai plurale, aperto e contaminato, Song for My Father resta una bussola preziosa. E non è un caso che oggi, nel 2025, venga ancora celebrato come una delle più alte espressioni di quella stagione in cui il jazz parlava al mondo – e con il cuore.


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