Newport Jazz Festival 1965

C’è un momento in cui la storia del jazz incontra le tensioni del presente e le visioni del futuro. 

Il Newport Jazz Festival del 1965, tenutosi dal 1° al 4 luglio nello stato del Rhode Island, è una di quelle rare occasioni in cui un evento musicale diventa specchio e insieme motore di cambiamento. Non fu solo un grande festival, ma una manifestazione carica di energia, rotture e contraddizioni, dove il jazz tradizionale, il bop, l’avant-garde e persino il rock iniziarono a confrontarsi su un terreno comune.

Curato e diretto da George Wein, fondatore del festival dal 1954, il Newport '65 fu un vero e proprio crocevia: artisti leggendari, giovani rivoluzionari, tensioni razziali, proteste giovanili, esperimenti e ritorni alle radici. In quelle giornate d’estate, il jazz si specchiò in un’America che cambiava: sempre più inquieta, sempre più politicizzata, sempre più plurale.

Per comprendere la portata del Newport Jazz Festival di quell’anno, bisogna ricordare cosa stava accadendo negli Stati Uniti nel 1965. Era l’anno della marcia da Selma a Montgomery, della firma del Voting Rights Act, ma anche della guerra del Vietnam che iniziava a dividere l’opinione pubblica. 

La cultura giovanile si faceva più radicale, il movimento per i diritti civili si ampliava, il rock esplodeva con i Beatles e Bob Dylan, mentre il jazz cercava di non farsi marginalizzare dal mainstream.

Il festival si trovava quindi al centro di una tempesta culturale. E proprio per questo, in quell’edizione, si concentrarono come in un prisma i vari modi in cui il jazz poteva rispondere alle sfide del presente: ripiegandosi nel classicismo, aprendosi al free, fondendosi con il soul, o persino contaminandosi con il folk e il rock.

L’edizione del 1965 vide esibirsi alcuni dei nomi più rappresentativi della scena jazzistica, da Duke Ellington a Frank Sinatra, da Miles Davis a Thelonious Monk, da Charles Mingus a Art Blakey e i Jazz Messengers, fino ad artisti della nuova avanguardia come Archie Shepp e John Coltrane.

Il set di John Coltrane, accompagnato dal suo classico quartetto (con McCoy Tyner, Jimmy Garrison e Elvin Jones), fu uno dei momenti più intensi del festival. Coltrane era reduce dal capolavoro A Love Supreme, ma al Newport 1965 portò un repertorio ancora più radicale, tra cui One Down, One Up e My Favorite Things, dilatata e resa quasi irriconoscibile. L’atmosfera era ipnotica, tesa, travolgente. Il pubblico fu diviso: molti acclamavano, altri abbandonavano i posti.

Coltrane, ormai proiettato oltre i confini della forma, rappresentava la nuova spiritualità del jazz, la sua vocazione cosmica e al tempo stesso profondamente politica. Quella performance divenne storica, tanto da essere pubblicata anni dopo in New Thing at Newport, album condiviso con un altro protagonista fondamentale di quell’edizione: Archie Shepp.

Shepp si presentò al Newport con una dichiarazione artistica e politica: portare il jazz oltre i confini della forma per raccontare il dolore e la rabbia della comunità afroamericana. Il suo set fu ruvido, intenso, provocatorio. Suonò brani come Call Me By My Rightful Name e Scag, con un linguaggio fatto di strappi, urli, dissonanze e swing stravolti.

Per molti, fu una provocazione. Ma per altri — tra cui Coltrane stesso, che lo sostenne apertamente — fu una boccata d’aria nuova. Shepp rappresentava la parte più militante del nuovo jazz: quella che parlava apertamente di razza, oppressione, liberazione.

Accanto alla nuova avanguardia, c’erano anche i giganti della tradizione: Duke Ellington presentò un set classico ma energico, guidando la sua orchestra con autorevolezza; Ella Fitzgerald incantò il pubblico con la sua solita eleganza vocale, mentre Thelonious Monk, con il suo quartetto, offrì un set più intimo e introspettivo, sempre fedele alla sua inconfondibile poetica.

Queste presenze rappresentavano una sorta di asse portante del festival: artisti che avevano già scritto la storia del jazz, ma che nel 1965 si trovavano a confrontarsi con un linguaggio che stava mutando radicalmente.

Uno degli eventi più sorprendenti e carichi di significato di quell’edizione fu l’apparizione di Frank Sinatra, il 4 luglio 1965, in occasione del decimo anniversario del festival. Fu la prima e unica volta in cui “The Voice” partecipò al Newport Jazz Festival. E la sua presenza fu tutt’altro che un semplice cameo.

George Wein aveva da tempo sognato di portare Sinatra a Newport, per creare un ponte tra la grande canzone americana e il mondo del jazz. Sinatra, inizialmente riluttante, accettò l’invito, consapevole dell’importanza simbolica dell’occasione. Non fu solo una performance impeccabile, ma un atto di rispetto verso il jazz e la sua comunità.

Accompagnato dalla band diretta da Quincy Jones, Sinatra presentò un repertorio raffinato e swingante: da Come Fly with Me a The Lady is a Tramp, passando per I've Got You Under My Skin e Fly Me to the Moon, che quell’anno divenne simbolicamente legata al programma spaziale americano.

Il pubblico, inizialmente diviso, fu conquistato. I jazzisti più puristi guardarono con curiosità (e forse un po’ di scetticismo), ma il carisma di Sinatra e la qualità musicale del set fecero tacere ogni polemica. In pochi minuti, il crooner divenne parte della “famiglia” del jazz. La sua esibizione venne trasmessa in TV, contribuendo a diffondere l’evento a un pubblico ancora più vasto.

Miles Davis, come sempre enigmatico e concentrato, si esibì con il suo quintetto “di transizione”, in una delle ultime apparizioni pubbliche prima della svolta elettrica di Bitches Brew. Il suo set, pur formalmente vicino all’hard bop, mostrava già segni di apertura: frasi taglienti, pause sospese, improvvisazioni inquiete. Davis era già altrove, pronto a reinventarsi.

Il Newport ’65 fu anche teatro di tensioni sociali. La crescente affluenza di giovani, la presenza di militanti, e l’arrivo di un pubblico meno borghese e più eterogeneo rispetto al passato crearono momenti di scontro con l’organizzazione e la polizia. Ci furono proteste, piccoli disordini e timori per la sicurezza. Alcuni giornali dell’epoca parlarono di “un festival sul filo del caos”.

George Wein fu costretto a ripensare la formula: pochi anni dopo, per evitare disordini, il festival si sarebbe spostato in spazi più chiusi e controllati. Ma proprio queste tensioni contribuirono a rendere quella del 1965 una delle edizioni più iconiche, capaci di intercettare lo spirito del tempo.

Il Newport Jazz Festival del 1965 non fu un semplice evento musicale. Fu un laboratorio di idee, uno specchio delle contraddizioni dell’America del tempo. Metteva in dialogo passato e futuro, mainstream e sperimentazione, arte e politica. Quella edizione è rimasta impressa nella memoria di chi c’era — e nella discografia, grazie a registrazioni come New Thing at Newport (Impulse!) e Miles & Monk at Newport.

Fu anche un segnale: il jazz non sarebbe più stato solo una musica d’ascolto, ma un linguaggio per raccontare il mondo, per prenderne posizione. Un linguaggio capace di trasformarsi, di bruciare, di rinascere. Proprio come accadde su quel palco, tra i fuochi del 4 luglio del 1965.

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