C’è una corrente del jazz che non cerca solo di intrattenere, stupire o sperimentare. Una corrente che nasce dal bisogno di connessione, meditazione, trascendenza, ma che non smette mai di essere anche politica, terrena, identitaria.
Questa corrente si chiama Spiritual Jazz: una delle espressioni più profonde, viscerali e potenti della musica afroamericana del secondo Novecento.
Non è un genere in senso stretto, né una scuola codificata. Piuttosto, è una visione del mondo, un modo di concepire il suono come ponte tra l’umano e il divino, tra la storia e il futuro, tra il dolore e la speranza.
Nato all’incrocio tra free jazz, cosmologia africana, religione, filosofia orientale e lotta per i diritti civili, lo Spiritual Jazz è un linguaggio dell’anima.
Le radici dello Spiritual Jazz si possono rintracciare tra la fine degli anni ’50 e i primi ’60, in un’America attraversata da tensioni razziali, cambiamenti sociali, guerre e movimenti rivoluzionari. In quel contesto, il jazz cominciava a staccarsi dai club e dalle convenzioni per diventare strumento di ricerca interiore, ma anche voce collettiva di liberazione.
Non era più sufficiente "suonare bene": molti musicisti volevano trasmettere un messaggio più grande, aprire una dimensione altra, evocare il sacro attraverso il suono. La musica diventava rito, preghiera, affermazione di identità.
A inaugurare questo cammino spirituale è senza dubbio John Coltrane, figura centrale e ispiratrice per generazioni di musicisti.
John Coltrane: il profeta del sax
Per molti, lo Spiritual Jazz comincia davvero con A Love Supreme (1965), capolavoro di John Coltrane. Quattro movimenti — Acknowledgement, Resolution, Pursuance, Psalm — che formano una suite di ringraziamento a Dio, una confessione intima trasformata in suono.
È un disco che cambia le regole: il jazz non è più solo forma, ma preghiera sonora, rito laico, spiritualità incarnata nel soffio del sax. Negli anni successivi, Coltrane spingerà ancora più in là la sua ricerca: Ascension, Meditations, Om — titoli che parlano da soli — sono opere febbrili, a tratti violente, dove l’urgenza spirituale si traduce in improvvisazione estrema, densità ritmica, coralità tumultuosa. Quando Coltrane muore nel 1967, il suo testimone passa a molti, a partire dalla moglie Alice Coltrane.
Alice Coltrane: arpa, mantra e cosmo
Dopo la morte di John, Alice intraprende un percorso personale e spirituale che la porta a fondere jazz, misticismo indiano e ricerca interiore. Dischi come Journey in Satchidananda (1971) e Ptah, the El Daoud sono ancora oggi tra le vette più pure dello Spiritual Jazz. Con la sua arpa, il piano modale, i bordoni e le influenze vediche, Alice apre una dimensione meditativa, ipnotica, a tratti estatica. La sua musica è luogo di guarigione, ma anche un’affermazione potente di femminilità spirituale e artistica, in un mondo jazzistico spesso dominato dagli uomini.
Pharoah Sanders: il grido e la pace
Allievo diretto di John Coltrane, Pharoah Sanders è uno dei pilastri dello Spiritual Jazz. Il suo sax tenore è a tratti selvaggio, urlante, quasi animalesco, ma sempre al servizio di una visione estatica. Album come Karma (1969), con la celebre “The Creator Has a Master Plan”, sono viaggi cosmici, rituali collettivi, momenti di illuminazione musicale. In Sanders convivono due anime: quella furiosa del free jazz e quella dolce, estatica, pacificata del mantra.
La sua musica pulsa come una preghiera collettiva: è lotta e pace insieme.
Strata East, Black Jazz, Impulse!: l’etichetta è politica
Lo Spiritual Jazz non è solo un’estetica, è anche un atto politico. Le etichette indipendenti come Strata-East, Black Jazz, Tribe, Nimbus, Saturn (per i dischi di Sun Ra) diventano strumenti di autodeterminazione, di produzione autonoma, di resistenza culturale. Artisti come Charles Tolliver, Stanley Cowell, Doug Carn, Rudolph Johnson, The Awakening, Ndikho Xaba, Idris Ackamoor: tutti suonano un jazz che parla di Africa, di spiritualità, di lotta, spesso con testi ispirati a Malcolm X, al panafricanismo, alla rivoluzione nera. È una musica nera, fiera, cosmica.
Sun Ra: il profeta interstellare
Menzione a parte per Sun Ra, figura impossibile da ingabbiare. Con il suo Arkestra, Sun Ra fondeva swing, elettronica, free jazz, poesia, costumi afro-futuristi, mitologia egizia e fantascienza. Per lui la musica era una via per lasciare la Terra, per immaginare un altrove oltre la segregazione e l’oppressione. Dischi come Space is the Place o Atlantis sono manifesti di liberazione afrocosmica, dove il jazz diventa astronave spirituale.
Lo Spiritual Jazz oggi
Lo Spiritual Jazz non è finito negli anni ’70. Anzi: oggi vive una nuova giovinezza. Artisti contemporanei come Shabaka Hutchings, Kamasi Washington, Matthew Halsall, Nate Morgan, Angel Bat Dawid, Damon Locks, Makaya McCraven, Immanuel Wilkins, Brandee Younger, Lakecia Benjamin e Carlos Niño riprendono quelle sonorità e quelle visioni, attualizzandole per un nuovo pubblico. Anche molte ristampe e raccolte (come quelle curate da Jazzman Records con la serie Spiritual Jazz) hanno contribuito a riportare alla luce tesori dimenticati, rilanciando musicisti oscuri ma fondamentali.
Lo Spiritual Jazz non è solo una musica “per intenditori”. È una musica che chiede tempo, attenzione, disponibilità all’ascolto, ma che in cambio offre profondità, bellezza, rivelazione. È un jazz che non si accontenta di esistere: vuole significare. In un mondo dove tutto è veloce, frammentario, superficiale, lo Spiritual Jazz ci ricorda che esiste ancora una musica che cerca senso, che scava dentro, che parla con il cielo ma non dimentica la terra.
Una musica che, senza parole, riesce a dire l’essenziale: chi siamo, cosa cerchiamo, dove possiamo andare.

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