Ci sono momenti nella storia del jazz in cui due personalità leggendarie, provenienti da percorsi artistici differenti ma ugualmente fondamentali, si incontrano per dar vita a qualcosa di unico.
“Duke Ellington Meets Coleman Hawkins”, registrato nel 1962 e pubblicato dalla Impulse! Records, è uno di quei rari episodi che incarnano l’essenza stessa del jazz: dialogo, improvvisazione, e soprattutto la capacità di fondere mondi sonori apparentemente lontani.
Da un lato c’è Duke Ellington, il pianista, compositore e bandleader che ha plasmato il linguaggio orchestrale del jazz per oltre quattro decenni, creando una musica elegante e raffinata, capace di superare i confini dei generi.
Dall’altro c’è Coleman Hawkins, il “padre del sax tenore”, il musicista che negli anni ’30 aveva rivoluzionato lo strumento portandolo al centro della scena jazzistica, con uno stile pieno, caldo e profondamente lirico.
L’incontro avviene in un contesto particolare: negli anni ’60, il jazz stava vivendo una fase di rapidi cambiamenti, tra nuove avanguardie e aperture al free jazz. Eppure, Ellington e Hawkins dimostrano che la tradizione non è mai immobilità: piuttosto, è un terreno fertile su cui continuare a costruire. L’album, infatti, unisce la nobiltà orchestrale e compositiva di Ellington al suono robusto e intensamente espressivo di Hawkins, trovando un equilibrio naturale che non sembra mai forzato.
Oltre al duetto ideale tra Ellington e Hawkins, l’album si arricchisce della presenza di alcuni dei musicisti più fidati dell’universo ellingtoniano. Al contrabbasso c’è Aaron Bell, dal tocco solido e discreto, capace di dare sostegno senza mai sovrastare. Alla batteria troviamo Sam Woodyard, colonna ritmica dell’orchestra di Ellington per oltre un decennio, il cui swing energico e preciso dona fluidità all’intero progetto. Al trombone c’è il fedele Lawrence Brown, elegante e lirico, mentre Johnny Hodges al sax alto contribuisce con il suo inconfondibile timbro vellutato, portando un tocco di dolcezza che dialoga alla perfezione con il tenore di Hawkins. Non manca Harry Carney, maestro del sax baritono, la cui profondità sonora completa lo spettro timbrico dell’ensemble.
Questa sezione ridotta, quasi cameristica rispetto alla grande orchestra ellingtoniana, offre un ambiente più intimo e raccolto in cui i solisti possono esprimersi con libertà e raffinatezza.
Il repertorio include brani originali di Ellington come “Mood Indigo” e “The Jeep Is Jumpin’”, che diventano il terreno perfetto per l’improvvisazione del sax di Hawkins, capace di muoversi con agilità tra malinconia e swing trascinante. Ci sono anche composizioni meno note, come “Limbo Jazz”, che mostrano il lato più giocoso ed esplorativo di Ellington, mentre Hawkins vi si inserisce con fraseggi moderni ma sempre profondamente melodici.
Il risultato è un album che non vuole stupire con effetti dirompenti, ma che conquista con la sua sobria intensità: un dialogo tra due maestri che si rispettano, si ascoltano e si completano. La produzione Impulse!, elegante e curata, conferisce all’opera una veste sonora che ne esalta la qualità senza tempo.
A distanza di oltre sessant’anni, “Duke Ellington Meets Coleman Hawkins” resta una testimonianza preziosa di come il jazz sia soprattutto arte dell’incontro: due giganti che, invece di sovrapporsi, trovano il modo di lasciare spazio l’uno all’altro, creando una musica che ancora oggi sa emozionare e insegnare.
Il disco rimane oggi un esempio perfetto di come il jazz possa essere al tempo stesso arte popolare e musica colta, intrattenimento e profondità espressiva. Ogni ascolto rivela nuovi dettagli, nuove sfumature, confermando la ricchezza di un incontro che ha segnato la storia del jazz.
Per chi si avvicina al jazz o per chi ne è già esperto conoscitore, questo album rimane un punto di riferimento imprescindibile, una lezione di stile, eleganza e profondità musicale che continua a ispirare e commuovere a distanza di oltre sessant'anni dalla sua creazione.

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