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| Daniel Shen Taipei CC BY-SA 2.0 |
Il film si muove tra i club e i festival jazz d’Europa, soprattutto in Francia e in Italia, alternando performance di grande intensità a momenti di quotidianità: Roy che si affaccia dal balcone di un hotel, improvvisa sotto il cielo notturno o passeggia alla ricerca di un gelato. Sono frammenti che catturano la sua fragilità, ma anche la sua profonda umanità.
Arricchito dalle testimonianze di amici e colleghi, il documentario mostra un artista capace di muoversi con naturalezza tra jazz, hip-hop, R&B e soul. Hargrove emerge come un musicista aperto, curioso, capace di fondere la tradizione con la sperimentazione, e di creare legami profondi con chi condivideva il palco con lui.
Non viene nascosta la dimensione più dolorosa della sua vita in quel periodo. Le scene lo mostrano spesso stanco, affaticato dai viaggi e dalle dialisi frequenti. La scelta di continuare a suonare, anche a costo di mettere a rischio la propria salute, rivela quanto la musica fosse per lui necessità vitale più che professione.
Tra i fili narrativi più interessanti c’è la relazione con il suo manager di lunga data, figura insieme protettiva e controversa. Questa dinamica, a tratti conflittuale, aggiunge spessore umano e drammatico al racconto.
Il documentario colpisce per la sincerità dello sguardo e per la capacità di cogliere l’essenza di Hargrove. Non mancano, però, alcune mancanze, come l’assenza delle sue composizioni originali, che avrebbe dato ancora più forza al racconto musicale.
"Hargrove" assume il tono di un testamento artistico. Girato poche settimane prima della sua morte, diventa un saluto accorato e intenso, un documento che fissa per sempre l’immagine di un uomo e di un musicista che ha dato tutto alla sua arte.

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