Due giganti della musica, apparentemente agli antipodi per approccio e temperamento, che nel 1957 diedero vita a uno dei sodalizi più fecondi e rivoluzionari della storia del jazz.
Quando John Coltrane si unì al quartetto di Thelonious Monk nell'estate del 1957, il sassofonista stava attraversando un momento di profonda trasformazione personale e artistica. Reduce dall'esperienza con Miles Davis e dopo aver superato la dipendenza dall'eroina, Coltrane era alla ricerca di una nuova direzione musicale. Il suo suono stava maturando, la sua tecnica si faceva sempre più raffinata, ma sentiva il bisogno di esplorare territori armonici inesplorati. Era come un viaggiatore alla ricerca di una mappa per terre sconosciute.
Monk, dal canto suo, era già riconosciuto come uno dei più originali compositori e pianisti del bebop, con un linguaggio armonico unico e una concezione ritmica che sfidava le convenzioni. Il suo pianismo angolare, fatto di dissonanze calcolate e pause eloquenti, aveva già rivoluzionato il modo di concepire l'improvvisazione jazzistica. Era un maestro nell'arte di dire l'essenziale, di trovare la nota giusta nel momento giusto, anche quando quella nota sembrava "sbagliata" a orecchie meno sofisticate.
L'incontro tra i due non fu casuale. Monk aveva sentito parlare del talento di Coltrane e aveva bisogno di un sassofonista che potesse interpretare la complessità delle sue composizioni. Coltrane, dal canto suo, era affascinato dalla reputazione di innovatore di Monk e intuiva che lavorare con lui avrebbe potuto aprirgli nuovi orizzonti espressivi.
Il primo impatto non fu semplice. Le composizioni di Monk, con le loro angolazioni armoniche inaspettate e le strutture ritmiche complesse, rappresentavano una sfida anche per un musicista del calibro di Coltrane. "Straight, No Chaser", "Ruby, My Dear", "'Round Midnight" – ogni brano era un labirinto di possibilità che richiedeva non solo tecnica, ma una comprensione profonda dell'estetica monkiana. Era come imparare una nuova lingua, dove le regole grammaticali tradizionali sembravano non applicarsi più.
Ciò che rendeva speciale questa collaborazione era il modo in cui i due musicisti si completavano. Monk, con il suo approccio minimalista e la capacità di dire molto con poche note, fungeva da contrappunto perfetto all'intensità espressiva di Coltrane. Il pianista costringeva il sassofonista a pensare in modo diverso allo spazio e al silenzio, elementi che sarebbero diventati centrali nell'evoluzione successiva di Coltrane.
I primi concerti insieme furono un processo di reciproco adattamento. Coltrane racconta di aver passato ore a studiare le composizioni di Monk, cercando di decifrare non solo le note scritte, ma l'intenzione nascosta dietro ogni accordo, ogni pausa, ogni sfumatura ritmica. Monk, dal canto suo, osservava con interesse come il sassofonista affrontasse i suoi brani, spesso intervenendo con consigli che andavano oltre la tecnica pura: "Non suonare tutto quello che sai, suona quello che la musica chiede", era solito dire.
Le registrazioni di questo periodo, raccolte principalmente nell'album "Thelonious Monk with John Coltrane", rappresentano un documento straordinario di questa sintesi artistica. Brani come "Trinkle Tinkle" e "Nutty" mostrano Coltrane alle prese con il linguaggio monkiano, mentre in "Epistrophy" si può sentire come il sassofonista stia già iniziando a sviluppare quella ricerca armonica che lo avrebbe portato ai capolavori degli anni '60.
Ma questi album sono solo la punta dell'iceberg. I concerti dal vivo di quel periodo rivelano una dimensione ancora più profonda della loro collaborazione. Al Five Spot Café di New York, dove il quartetto di Monk con Coltrane si esibiva regolarmente, si poteva assistere a un vero e proprio laboratorio creativo in tempo reale. Ogni sera le stesse composizioni venivano reinterpretate, esplorate da angolazioni diverse, trasformate in veicoli per nuove scoperte musicali.
Coltrane descriveva quei mesi come una vera e propria università del jazz. Non solo imparava a navigare le complesse strutture compositive di Monk, ma assorbiva un approccio completamente nuovo alla musica. Monk gli insegnava a pensare in termini di architettura sonora, dove ogni elemento aveva la sua funzione specifica nell'economia complessiva del brano. "Non riempire tutti gli spazi", gli diceva Monk, "lascia che la musica respiri".
L'influenza di questa esperienza si manifestò immediatamente nel modo di suonare di Coltrane. Il suo fraseggio divenne più controllato, più consapevole dell'effetto di ogni nota. Iniziò a sperimentare con pause e silenzi, elementi che prima considerava solo come necessità tecniche per riprendere fiato. La sua improvvisazione acquisì una dimensione narrativa più forte, come se ogni solo fosse un racconto con un inizio, uno sviluppo e una conclusione logica.
Ma forse l'aspetto più affascinante di questa collaborazione risiede nell'influenza reciproca che si estese ben oltre i mesi trascorsi insieme. Coltrane portò con sé gli insegnamenti di Monk per tutta la carriera, e si possono rintracciare echi dell'approccio monkiano anche nei lavori più sperimentali del sassofonista. Anche quando si addentrò nel free jazz e nelle esplorazioni spirituali più estreme, mantenne sempre quella sensibilità per la costruzione formale e l'economia espressiva che aveva appreso da Monk.
Monk, dal canto suo, sembrava aver trovato in Coltrane una conferma della validità del suo approccio compositivo, una prova che la sua musica poteva ispirare e sfidare anche i musicisti più dotati. L'esperienza con Coltrane rafforzò la sua convinzione che il jazz dovesse continuare a evolversi, a cercare nuove forme di espressione pur mantenendo le radici nella tradizione.
Quando i due si separarono, alla fine del 1957, entrambi erano cambiati. Coltrane aveva acquisito una maturità artistica che lo avrebbe portato a diventare uno dei grandi innovatori del jazz moderno. Monk aveva dimostrato ancora una volta la sua capacità di essere mentore e catalizzatore per altri grandi talenti.
La collaborazione tra Monk e Coltrane rimane un esempio perfetto di come la musica jazz, nella sua essenza più pura, sia un'arte del dialogo e della crescita reciproca. In un'epoca in cui il jazz stava evolvendo rapidamente verso nuove forme di espressione, questi due giganti riuscirono a creare insieme qualcosa che andava oltre la somma delle loro individualità artistiche.
Oggi, a distanza di decenni, quella musica continua a parlare agli ascoltatori e ai musicisti con la stessa forza rivoluzionaria di allora. Perché alcune collaborazioni, quelle vere, non invecchiano mai: continuano a essere una fonte inesauribile di ispirazione e meraviglia.

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