Deborah Silver & Count Basie Orchestra – Basie Rocks!

Ci sono dischi che nascono da un’idea precisa, e poi ci sono dischi che nascono da un’intuizione: una di quelle scintille che fanno pensare “perché no?”. 

È il caso di Basie Rocks!, l’album con cui la cantante Deborah Silver ha scelto di reinterpretare alcuni classici del rock e del pop insieme a un’autentica leggenda vivente: la Count Basie Orchestra.

Un progetto coraggioso, sorprendente, quasi spiazzante. Perché prendere brani come Paint It Black, Every Breath You Take, Bennie and the Jets o Old Time Rock & Roll e farli suonare da un ensemble nato per lo swing anni ’30 richiede più di una buona idea: serve visione, rispetto, orecchio e un pizzico di follia creativa. E Deborah Silver, artista americana con radici nel jazz tradizionale ma sempre pronta ad allargare i confini del repertorio, ha dimostrato di avere tutto questo.

Deborah Silver canta con una voce chiara, calda, scolpita nel gusto jazz ma mai troppo "di maniera". Ha il tocco brillante della vocalist swing, ma anche una sensibilità pop moderna che le consente di avvicinarsi con credibilità a canzoni che in origine poco o nulla avevano a che fare con il jazz orchestrale.

E qui arriva il vero cuore del progetto: la Count Basie Orchestra, diretta oggi da Scotty Barnhart, che ha saputo traghettare l’eredità di Basie nel presente senza mai snaturarne lo spirito. L’orchestra non accompagna Silver: la sostiene, la provoca, la amplifica. Ne A Hard Day’s Night, ad esempio, la sezione fiati trasforma i riff dei Beatles in frasi jazzistiche senza perdere l’energia originale. E in Bennie and the Jets, l’arrangiamento si muove su un equilibrio perfetto tra Elton John e Duke Ellington.

Basie Rocks! è anche un album ricco di collaborazioni, ma mai forzate. Sono ospiti che entrano con misura e aggiungono qualcosa di vero: Peter Frampton, con la sua chitarra su Baby, I Love Your Way, firma una delle interpretazioni più delicate e raffinate dell’album.; Pharoah Sanders e Pedrito Martínez (in uno degli ultimi progetti del grande tenorsassofonista) donano a Paint It Black un’anima tra spiritual jazz e afrocubanismo; Kurt Elling, elegante e profondo, duetta con Silver su Tainted Love, trasformando la hit degli anni ’80 in un ballad jazzy densa di sensualità; E ci sono anche Bill Frisell, Trombone Shorty, Wycliffe Gordon, George Coleman — nomi che, per chi ama il jazz, valgono da soli il prezzo del disco.

Ma nonostante la parata di star, l’atmosfera resta sempre coerente: la protagonista è la musica, non i nomi sulla copertina.

Cosa succede quando il jazz incontra il rock? Se l’incontro è sincero e pensato con cura, succede qualcosa di raro: una trasformazione reciproca. I brani rock non vengono semplicemente “rifatti in versione swing” (quante volte si è visto questo errore), ma ripensati alla luce di una tradizione orchestrale fatta di arrangiamenti curati, dinamiche ampie, interplay.

Il rock resta riconoscibile, ma si arricchisce: di pause, di contrappunti, di calore. E il jazz, in questo processo, non perde nulla. Anzi, si rinnova, torna ad essere ciò che è sempre stato: una musica che sa accogliere, reinventare, sorprendere.

Non stupisce che Basie Rocks! sia balzato in cima alle classifiche jazz statunitensi, ottenendo il primo posto nella categoria Traditional Jazz Album. È un disco che si lascia ascoltare con piacere, ma che dietro la sua immediatezza nasconde una cura certosina degli arrangiamenti, della produzione, della coerenza sonora.

Alla guida c’è Steve Jordan, batterista di enorme esperienza (tra i suoi crediti: Rolling Stones, John Mayer, Eric Clapton), che qui lavora come produttore e arrangiatore, tenendo insieme le diverse anime del progetto con mano ferma e sensibilità.

Basie Rocks! è un disco che fa bene: alla Count Basie Orchestra, che dimostra ancora una volta di essere una macchina musicale straordinaria capace di rinnovarsi; a Deborah Silver, che si conferma artista curiosa e capace di osare senza perdere eleganza; e al jazz stesso, che troppo spesso viene imprigionato in gabbie di “purezza” e dimentica che la sua forza è sempre stata la contaminazione.

È un album che si ascolta col sorriso, ma che merita anche un ascolto attento, perché ogni brano è costruito con intelligenza e gusto. Un disco che celebra la tradizione con leggerezza, senza nostalgia, con l’energia di chi sa che il jazz non è un museo, ma un linguaggio vivo.


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