Monk, con il suo stile pianistico spigoloso e inconfondibile, è sempre stato fuori dagli schemi: un compositore visionario, un improvvisatore che sembrava ragionare in geometrie impensabili, e insieme un uomo profondamente segnato da un'esistenza difficile e da un mondo che spesso non ha saputo comprenderlo fino in fondo.
Il film nasce da un ritrovamento fortunato: le straordinarie riprese realizzate da Christian Blackwood negli anni ’60, molte delle quali mai utilizzate fino a quel momento. Queste immagini – intime, dirette, mai compiacenti – mostrano Monk in contesti pubblici e privati: al piano, in concerto, in studio, in viaggio, ma anche nei silenzi, nei gesti ripetitivi, nelle pause che dicono più di molte parole.
Zwerin costruisce attorno a questo materiale d’archivio una narrazione sobria ma incisiva, lasciando spazio alla musica e ai testimoni diretti – la moglie Nellie, il figlio T.S., i colleghi e amici – che compongono un ritratto corale, senza mitologie né retorica.
Ciò che colpisce è l’incredibile coerenza tra l’uomo e il musicista: Monk appare, nel bene e nel male, sempre se stesso. Misterioso, eccentrico, a tratti distante, ma mai costruito. I suoi silenzi sono eloquenti quanto i suoi assoli. L’ostinazione con cui difendeva la propria arte, anche quando non veniva capita, si riflette in ogni fotogramma. E la sua musica – fatta di dissonanze, spigoli, ostinati ritmici e melodie folgoranti – accompagna l’intero film come una seconda voce narrante, che commenta e scolpisce la storia senza mai bisogno di spiegazioni.
Non mancano le ombre: le difficoltà economiche, i problemi mentali, l’isolamento degli ultimi anni. Ma anche queste parti della vita di Monk vengono trattate con rispetto, mai come facile dramma. Il documentario riesce così a trovare un equilibrio delicato tra il ritratto dell’artista e quello dell’uomo, restituendo la grandezza del suo contributo alla musica senza nascondere le sue fragilità.
Straight, No Chaser è anche una riflessione più ampia sulla condizione dei musicisti afroamericani nella seconda metà del Novecento: sulle difficoltà di emergere e di essere riconosciuti, sui viaggi, sulle notti nei club, sulle ingiustizie e sull’orgoglio. In questo senso, la figura di Monk è paradigmatica: un innovatore radicale, spesso incompreso, che ha cambiato per sempre il modo di concepire l’armonia e il ritmo nel jazz.
A distanza di oltre trent’anni dalla sua uscita, questo documentario resta un punto di riferimento imprescindibile per chi vuole avvicinarsi all’universo monkiano non solo con l’orecchio, ma anche con lo sguardo. Un film che non cerca di spiegare l’inspiegabile, ma si limita – con grande intelligenza – a mostrare. A far parlare la musica. E in fondo, è proprio questo che Monk avrebbe voluto.

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