È uno di quei rari momenti in cui il tempo sembra sospendersi e la musica, anche attraverso lo schermo, riesce a parlare direttamente all’anima.
Il video, recentemente colorizzato, non solo restituisce al pubblico una performance straordinaria, ma lo fa con una vividezza che ci fa sentire più vicini a quella giornata di primavera di quasi sessant’anni fa.
Bill Evans, in quel periodo, era già una figura centrale del jazz moderno. Dopo l’esperienza rivoluzionaria con Miles Davis in Kind of Blue e la dolorosa perdita del contrabbassista Scott LaFaro nel 1961, il pianista aveva ricostruito il suo trio con altri musicisti capaci di condividere il suo approccio profondamente lirico e cameristico alla musica. In questo caso, lo affiancano Chuck Israels al contrabbasso e Larry Bunker alla batteria: due compagni di viaggio sensibili e duttili, perfetti per il mondo sonoro di Evans.
Il set proposto in questa sessione è un piccolo capolavoro di equilibrio, emozione e raffinatezza. Si apre con “How My Heart Sings”, un brano emblematico della poetica evansiana, dove la melodia si muove come un respiro leggero tra le pieghe di armonie sofisticate. Il trio suona con un’intesa quasi telepatica, come se ogni nota fosse anticipata, accolta e trasformata dagli altri due musicisti.
Segue “Nardis”, il celebre pezzo di Miles Davis che Evans ha fatto suo attraverso innumerevoli interpretazioni, sempre diverse. Qui il brano diventa un vero viaggio interiore: dopo un'introduzione quasi spettrale, il pianoforte si apre in un lungo assolo libero, esplorativo, in cui il tempo si dilata e ogni pausa acquista significato. Israels e Bunker accompagnano con discrezione e creatività, senza mai imporre un ritmo ma sostenendo lo sviluppo narrativo del brano.
La ballata “Who Can I Turn To” riporta l’atmosfera verso un’intimità quasi cinematografica: le note si adagiano una sull’altra come sussurri, con un lirismo trattenuto che evita ogni facile sentimentalismo. Infine, “Someday My Prince Will Come” chiude il set con un senso di dolce malinconia, tra romanticismo e swing.
Dal punto di vista visivo, il filmato è un tesoro. La colorizzazione, per quanto discreta, aggiunge una dimensione nuova all’esperienza. Vedere Bill Evans chino sul piano, immerso nella sua concentrazione assorta, o osservare i gesti misurati di Israels e Bunker, ci restituisce tutta l’umanità del momento. È una lezione di musica, ma anche di ascolto, di dialogo, di rispetto reciproco tra i musicisti.
Questo video non è solo un documento storico: è una finestra viva sul mondo poetico di Bill Evans, un artista che ha saputo coniugare rigore formale e libertà espressiva come pochi altri. Guardarlo oggi significa rientrare in contatto con una dimensione del jazz fatta di introspezione, raffinatezza e profondissima umanità.
Un regalo prezioso per chi ama il jazz – e un invito, per chi ancora non lo conosce, a scoprire l’universo silenziosamente rivoluzionario di Bill Evans.

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