I 50 anni di The Last Concert del Modern Jazz Quartet

Sono passati cinquant’anni da The Last Concert del Modern Jazz Quartet, registrato dal vivo alla Avery Fisher Hall del Lincoln Center nel dicembre del 1974 e pubblicato l’anno successivo. 

Un concerto che, per molti, rappresentava la fine di un'epoca. E in un certo senso lo è stato. Non solo perché segnava lo scioglimento – temporaneo – di uno dei gruppi più longevi e raffinati della storia del jazz, ma anche perché suggellava un modo di intendere la musica jazz come forma d’arte alta, colta, composta ma mai fredda.

Il Modern Jazz Quartet – John Lewis al pianoforte, Milt Jackson al vibrafono, Percy Heath al contrabbasso e Connie Kay alla batteria – è stato un ensemble fuori dal tempo, per stile e coerenza. Nato nel 1952 come evoluzione di una sezione ritmica già attiva nel gruppo di Dizzy Gillespie, il quartetto ha progressivamente sviluppato un’estetica unica: jazz da camera, venato di blues, con elementi di musica barocca, swing misurato e un senso profondo dell’equilibrio. Nessuno come loro ha saputo fondere improvvisazione e rigore, libertà e struttura.

The Last Concert è la testimonianza definitiva di questa visione. Un doppio album dal vivo che raccoglie momenti di altissimo lirismo e intesa telepatica, una sorta di compendio del percorso artistico del gruppo. La scelta di salutare il pubblico con un concerto piuttosto che con un semplice comunicato è perfettamente coerente con la loro eleganza: un gesto artistico, quasi teatrale, ma anche intimo. Non una separazione netta, ma un arrivederci in forma di musica.

Il repertorio di quella sera alterna brani originali e standard, momenti di introspezione e swing controllato. John Lewis conduce con il suo tocco limpido e cristallino, mentre Milt Jackson colora l’insieme con il suo vibrato caldo e bluesy, più viscerale e comunicativo. La dialettica tra i due – cerebralità e istinto – è sempre stata il cuore pulsante del gruppo. Ma non vanno dimenticati Percy Heath e Connie Kay, che tessono un tappeto ritmico morbido e preciso, capace di sostenere e impreziosire ogni variazione dinamica.

A distanza di cinquant’anni, l’ascolto di The Last Concert restituisce intatta la raffinatezza del MJQ, la loro capacità di creare atmosfere sospese, di dialogare con la forma-sonata tanto quanto con il blues più essenziale. È un disco che si muove con grazia, mai sopra le righe, eppure profondo, ricco di tensioni sottili e intuizioni melodiche. L’idea di chiudere il ciclo del quartetto con una performance così curata non è solo un atto di rispetto verso il pubblico, ma anche verso la musica stessa.

Naturalmente il gruppo si riunirà qualche anno dopo – negli anni Ottanta e Novanta tornerà a suonare insieme in tour e in studio – ma The Last Concert resta uno spartiacque simbolico. È la fine di un’era in cui il jazz poteva ancora esprimersi con forme composte senza perdere la sua anima, in cui l’equilibrio tra scrittura e improvvisazione non era compromesso né da virtuosismi vuoti né da un eccessivo intellettualismo.

Riascoltarlo oggi significa non solo fare i conti con un passato glorioso, ma anche interrogarsi su ciò che resta di quella visione musicale. Nel tempo dell’immediatezza e della saturazione sonora, The Last Concert ci ricorda il valore del dettaglio, del silenzio, della misura. Una lezione, forse, ancora più attuale oggi di quanto non lo fosse nel 1975.


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