Quando nel 1997 Blood on the Fields di Wynton Marsalis vinse il Premio Pulitzer per la musica, la notizia fece storia.
Non solo perché per la prima volta il massimo riconoscimento della musica americana andava a un’opera jazz (fino ad allora dominavano partiture sinfoniche e composizioni accademiche), ma soprattutto perché quel riconoscimento veniva attribuito a una narrazione profonda, aspra e musicale della schiavitù. Una narrazione nera nel linguaggio più autenticamente nero che gli Stati Uniti abbiano mai prodotto: il jazz.
A più di 25 anni di distanza, Blood on the Fields resta un'opera unica, ambiziosa, ancora poco conosciuta dal grande pubblico ma assolutamente centrale nella storia della musica americana del secondo Novecento. È un lavoro che va ben oltre il jazz, fondendo oratorio, teatro musicale, spiritualità e politica in un affresco sonoro che scuote e coinvolge.
Marsalis, trombettista e compositore di New Orleans, all’epoca già figura carismatica nel mondo jazzistico e direttore della Jazz at Lincoln Center Orchestra, concepisce Blood on the Fields come un oratorio jazz: un’opera estesa in tre atti per voci soliste, coro e grande ensemble. Ma a differenza degli oratori religiosi tradizionali, qui la materia è profondamente terrena e storica: la tratta degli schiavi, la perdita dell’identità, la sopravvivenza e infine la resistenza spirituale.
I protagonisti sono due giovani africani, Jesse e Leona, catturati e venduti come schiavi nel Nuovo Mondo. Attraverso i loro occhi, la musica ripercorre le tappe della violenza coloniale, ma anche la nascita di una coscienza, il lento e doloroso cammino verso la libertà.
Marsalis non si limita a scrivere musica: costruisce una narrazione drammatica, dove la voce assume un ruolo fondamentale. Le voci di Cassandra Wilson, Miles Griffith e Jon Hendricks (nell’incisione originale) sono molto più che cantanti: diventano strumenti teatrali, che cantano, narrano, si ribellano, soffrono.
La partitura alterna momenti di grande lirismo – con melodie blues e gospel – a sezioni più complesse e dissonanti, dove la rabbia prende la forma del ritmo spezzato, del fraseggio teso, delle improvvisazioni dell’orchestra. Il jazz, qui, non è semplicemente il linguaggio scelto: è il codice emotivo della vicenda, capace di tradurre in suono l’ambiguità, il dolore, la speranza.
Il lavoro dura quasi tre ore. È strutturato in modo ciclico, come una vera e propria sinfonia drammatica, e richiede all’ascoltatore un impegno attivo. Non c’è una melodia orecchiabile da portare a casa dopo il primo ascolto: c’è una costruzione progressiva, un accumulo di tensioni, un’evoluzione dei personaggi che passa anche attraverso lo sviluppo musicale.
Marsalis si muove tra blues, spirituals, stride piano, swing e bebop, intrecciando questi idiomi in una scrittura che tiene insieme tradizione e innovazione, memoria e visione. L'orchestra suona con forza e precisione, ma anche con la libertà necessaria per lasciare che i solisti "parlino", ciascuno con la propria voce, come se fossero personaggi dentro un dramma corale.
Il Premio Pulitzer a Blood on the Fields fu una svolta culturale. Per decenni, il jazz – pur essendo considerato da molti la “musica classica americana” – era stato escluso dal canone colto premiato dal Pulitzer. Solo con Marsalis si aprì una breccia che porterà poi, molti anni dopo, a riconoscimenti a figure come Ornette Coleman e, in ambito hip-hop, Kendrick Lamar.
Il premio non fu solo un tributo alla qualità musicale dell’opera, ma anche un gesto politico: riconoscere che il jazz può raccontare la storia americana in modo profondo, articolato, vero. E che la schiavitù, troppo spesso rimossa o edulcorata, può trovare in un’opera artistica uno spazio di elaborazione autentica e non pacificata.
In tempi in cui le questioni razziali e la memoria storica tornano prepotentemente nel dibattito pubblico, Blood on the Fields assume un nuovo significato. Non è solo un capolavoro del jazz contemporaneo: è un’opera civile, una testimonianza sonora di ciò che è stato, ma anche una riflessione su ciò che siamo.
Marsalis ci dice che non basta celebrare la libertà: bisogna comprendere le sue origini, i suoi costi, la sua fragilità. E lo fa non con un discorso, ma con la musica, che arriva più in profondità delle parole.
Se non l’hai mai ascoltata, Blood on the Fields può sembrare un’opera impegnativa. Ma vale ogni minuto. Ti consigliamo di approcciarla come si farebbe con una grande opera lirica o una sinfonia: con tempo, attenzione, magari leggendo il libretto. Le emozioni che scaturiscono – lo sdegno, la compassione, la speranza – sono reali, profonde, coinvolgenti.
È anche un grande esempio di cosa può fare il jazz quando smette di essere solo un “genere” musicale e si trasforma in racconto epico, riflessione politica, viaggio spirituale.
Blood on the Fields non è solo un'opera musicale, è una dichiarazione di identità culturale, una memoria sonora che restituisce voce agli invisibili. In un mondo che cerca ancora di fare i conti con le sue ferite storiche, quest’opera ci invita a non dimenticare, ma anche a trasformare il dolore in arte, la memoria in coscienza.
Wynton Marsalis, con questa composizione monumentale, ci lascia una lezione che va oltre il jazz: la musica può raccontare la verità. Anche quando è scomoda. Anche quando fa male. Ed è proprio lì che diventa necessaria.

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