Miles Davis e la pittura: colori, gesti e improvvisazioni sulla tela

Quando si parla di Miles Davis, l’immaginario collettivo si popola di suoni rivoluzionari, di trombe dal timbro inconfondibile, di silhouette eleganti nascoste nell’ombra di un palco. 

Eppure, c’è un altro Miles – più silenzioso, più intimo – che negli ultimi decenni della sua vita trovò rifugio e libertà espressiva in un mondo parallelo: la pittura. Per Miles, la tela diventò uno spazio di esplorazione artistica, una sorta di estensione visiva del suo linguaggio musicale. Non si trattò mai di un hobby o di una semplice distrazione, ma di un’esigenza profonda, quasi viscerale, di continuare a raccontarsi attraverso un diverso codice espressivo.

Miles iniziò a dipingere seriamente negli anni ’80, in un periodo segnato dalla malattia, dalla rinascita creativa e da una rinnovata voglia di vivere. Il suo approccio alla pittura era istintivo, materico, vibrante. Così come non leggeva spartiti quando suonava, anche sulla tela si muoveva senza schemi precostituiti: lasciava che il colore guidasse la mano, che il gesto prendesse il sopravvento. «Dipingo come suono», diceva spesso, sottolineando quanto il processo fosse simile a quello dell’improvvisazione jazz: una costruzione istantanea, fragile, ma potentemente autentica.

Le sue opere sono piene di energia: figure stilizzate, visi enigmatici, forme astratte, linee spigolose e colori accesi che sembrano emergere da una danza istintiva tra furia e controllo. Spesso utilizzava tecniche miste – acrilico, pastello, inchiostro – stratificando materia e suggestioni. Alcune composizioni ricordano l’espressionismo astratto americano, altre evocano le maschere africane o le geometrie del graffitismo metropolitano.

Le tele di Miles raccontano storie. Non solo le sue, ma quelle della cultura afroamericana, delle sue radici, della sua esperienza esistenziale fatta di orgoglio, dolore, amore, alienazione. In molti ritratti ricorrono volti dai tratti marcati, quasi totemici, che sembrano dialogare con il pubblico senza bisogno di parole. Altri dipinti sono invece più rarefatti, fatti di forme che si muovono nello spazio come note in un assolo modale.

Questa dimensione visiva non è mai slegata dalla musica. In certi dipinti, si ha l’impressione che l’artista voglia “dipingere il suono”, trasformare la vibrazione della tromba in traccia cromatica, il ritmo in composizione plastica. Le sue opere trasudano groove, melodia, tensione armonica, quasi fossero partiture visive di un’opera senza audio.

Nel corso degli anni ’80 e inizio ’90, Miles iniziò a esporre le sue opere in gallerie d’arte, soprattutto negli Stati Uniti e in Giappone. La critica fu inizialmente perplessa, ma col tempo cominciò a riconoscere il valore autonomo del suo lavoro pittorico. Non si trattava di una celebrità prestata all’arte visiva, ma di un artista autentico che aveva trovato un altro mezzo per parlare lo stesso linguaggio interiore.

Nel 2013, una grande mostra intitolata Miles Davis: The Art of Cool ha raccolto molte delle sue opere, riscuotendo successo in Europa e Nord America. Le sue tele sono oggi esposte in collezioni private, gallerie e musei, oggetto di studio e rivalutazione critica. Alcuni collezionisti vedono nella pittura di Miles lo stesso spirito di rottura e di innovazione che ha attraversato la sua carriera musicale: un linguaggio in evoluzione costante, capace di contaminare e reinventare.

Per Miles Davis, dipingere era anche una forma di liberazione personale. Dopo una vita trascorsa sotto i riflettori, con tutte le pressioni, i conflitti e le aspettative che questo comportava, la pittura rappresentava un momento di silenzio, di solitudine creativa, di immersione totale. In un’intervista, dichiarò che «quando dipingo, non penso a niente, sento solo. È come un altro tipo di solo. Un altro tipo di assolo.»

Il suo studio era un luogo sacro: pareti coperte di schizzi, tele incomplete, colori ovunque, e una musica sempre accesa in sottofondo – spesso la sua, a volte quella di Prince o Sly Stone. In quel microcosmo si consumava il rito quotidiano della creazione, tra pennelli e spugne, tra memoria e visione.

La pittura di Miles Davis non può essere separata dalla sua musica, così come la sua musica non può essere disgiunta dalla sua visione del mondo. In entrambe le discipline, c’è un’urgenza comunicativa che trascende le forme, un desiderio di reinventare il linguaggio, di mettere in crisi la superficie per cercare qualcosa di più profondo, più vero. E forse è proprio questa coerenza tra le arti – questa continuità di spirito, più che di tecnica – che rende così affascinante il lato visivo di Miles Davis.

Era un artista totale, non solo perché eccelleva in più campi, ma perché viveva ogni forma d’arte come parte di un unico flusso creativo. Suonava come dipingeva, dipingeva come viveva: con coraggio, con rabbia, con grazia.

Ecco un video della mostra "Miles Davis - Forme e Colori di un Trombettista", Pittura  & Grafica, allestita dall'1 al 29 Novembre 2017 presso la "Universe Virtual Art Gallery" diretta da Bruno Pollacci, direttore dell'Accademia d'Arte di Pisa 

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