Ci sono album che fanno la storia, e altri che la raccontano in tempo reale, come una cronaca istintiva di ciò che il jazz può essere.
A Night at the Village Vanguard, registrato nel novembre del 1957, è entrambe le cose. Non è solo un disco: è un manifesto di libertà creativa, un documento crudo e vivo che ancora oggi pulsa con l’energia del presente.
Sonny Rollins, già allora una delle voci più forti e riconoscibili del sax tenore, sceglie di spogliarsi di tutto: niente pianoforte, niente sovrastrutture armoniche, solo un trio essenziale – sax, contrabbasso e batteria – e l’atmosfera intensa del Village Vanguard, piccolo jazz club del Greenwich Village che da lì in poi diventerà luogo mitico delle registrazioni live.
Il formato trio senza pianoforte non era del tutto nuovo – già Lester Young o Lee Konitz avevano esplorato la formula – ma con Rollins diventa qualcosa di diverso: una sfida alla costruzione stessa del discorso jazz. Senza l’armonia dettata da un piano, il sax diventa non solo strumento melodico ma anche narratore armonico e ritmico. E Rollins, con la sua fantasia inesauribile e la sua forza fisica, dimostra di poter reggere l’intero impianto da solo, dialogando con un accompagnamento che cambia faccia tra il set pomeridiano e quello serale.
Al basso troviamo Donald Bailey nel primo set e Wilbur Ware nel secondo, mentre alla batteria si alternano Pete La Roca e il monumentale Elvin Jones. Due trii, due energie diverse, una sola direzione: quella della massima libertà espressiva.
Rollins suona come se avesse qualcosa da dire a ogni singola battuta. Non c'è compiacimento tecnico, ma un'esplorazione febbrile delle possibilità del tema, della variazione, dell’improvvisazione come racconto. In “Old Devil Moon” o in “Softly, As in a Morning Sunrise”, è come se il sassofono cercasse di scoprire ogni angolo nascosto della melodia, trascinandoci in un viaggio ipnotico.
Il modo in cui Rollins gioca con lo spazio, con le pause, con i ritorni ritmici imprevisti, è rivoluzionario. È un jazz che respira, che si sporge sull’orlo dell’imprevisto e ci si abbandona con fiducia. È Rollins che parla con se stesso, con la stanza, con la storia.
Questa registrazione segna anche l’inizio di una lunga tradizione: da Coltrane a Bill Evans, da Joe Lovano a Brad Mehldau, tanti artisti graveranno dischi memorabili tra le pareti strette e vissute del Village Vanguard. Ma Rollins è il primo a cogliere – e a restituire su nastro – il respiro vivo di quel luogo. Il pubblico si sente, il fumo si immagina, l’acustica cruda e ravvicinata trasforma l’ascoltatore in un testimone.
Non è un disco levigato. I microfoni non sono perfetti, i volumi variano, ma è proprio in questa imperfezione viva che si trova la sua forza. È jazz nella sua forma più diretta e onesta.
A Night at the Village Vanguard non è solo un album per appassionati o storici del jazz. È un invito all’ascolto puro, una lezione di essenzialità e di invenzione. È musica che insegna a lasciare andare, a costruire con poco, a trasformare un'idea semplice in un universo narrativo. Per chi ama l’improvvisazione vera, quella che non si ripete mai, è un disco imprescindibile.
Rollins, con questo live, ci dice che la vera ricchezza del jazz non sta nei virtuosismi, ma nella capacità di essere presente. Di raccontare ogni volta una storia nuova, con gli stessi pochi strumenti, nello stesso piccolo club.

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