C’è un luogo a New York che è diventato, nel tempo, una sorta di tempio laico del jazz: il Village Vanguard. Quella piccola cantina al 178 di Seventh Avenue South ha ospitato – e continua a ospitare – i momenti più intensi, profondi e autentici di questo linguaggio musicale. Uno di questi momenti è stato immortalato nel 1985 in un album che ancora oggi vibra di una tensione creativa irresistibile: Joe Henderson – Live at the Village Vanguard.
Joe Henderson, all’epoca dell’incisione, era un veterano del jazz, uno di quei musicisti che avevano attraversato i grandi anni '60 e '70 lasciando il segno sia come sideman che come leader. Ma con questo disco dal vivo – pubblicato dalla Milestone – sembra voler riaffermare la sua posizione tra i grandi del tenore, non con dichiarazioni o proclami, ma con il suono caldo, deciso e articolato del suo sax.
Il live è registrato in due serate, il 14 e 15 novembre 1985, e vede Henderson accompagnato da una formazione essenziale ma perfettamente funzionale: Ron Carter al contrabbasso e Al Foster alla batteria. Una scelta significativa. Nessun pianoforte, nessun altro fiato. Solo tre strumenti per costruire un universo sonoro denso, carico di significato. Henderson abbraccia la sfida del trio con una naturalezza disarmante, lasciando che il silenzio tra le note diventi parte integrante della narrazione.
Ascoltare questo album significa trovarsi dentro il Village Vanguard. Le registrazioni restituiscono non solo il suono dei musicisti, ma anche l’ambiente, l’energia della sala, i respiri del pubblico, la tensione dei momenti sospesi. Ogni brano è una narrazione a sé, ma anche un capitolo di un discorso più ampio: la libertà del linguaggio jazz.
Henderson apre con una versione estesa di Beatrice, ballad lirica e riflessiva scritta da Sam Rivers, trasformata da Henderson in una meditazione sospesa tra romanticismo e introspezione. L’esecuzione non è mai stucchevole; al contrario, il fraseggio è essenziale, ma capace di evocare emozioni complesse, anche grazie alla sensibilità ritmica di Foster e alla profondità timbrica di Carter.
Segue Friday the 13th di Thelonious Monk, una scelta che mostra chiaramente l’inclinazione di Henderson per le strutture aperte e per la tensione armonica. Qui il trio si diverte con l’ironia e la sconnessione monkiana, ma senza mai perdere coesione. Henderson riesce ad abitare il mondo di Monk senza imitarlo, portando il suo proprio senso del tempo e dell’espressione.
Happy Reunion di Duke Ellington è forse il brano più “bluesy” della raccolta, una ballata dolente e calda, che Henderson suona con un lirismo misurato, mai teatrale. Qui si sente la sua capacità di raccontare storie con il sax: ogni frase è un capitolo, ogni pausa è una sospensione emotiva.
Suonare in trio senza strumento armonico – come in questo caso – significa esporsi, prendersi dei rischi, ma anche avere maggiore libertà. Joe Henderson abbraccia pienamente questa condizione: si muove tra le strutture dei brani con autorità, spesso reinventandole. Le sue improvvisazioni sono fluide, articolate, talvolta impetuose, ma mai gratuite. Ogni nota ha un senso, ogni frase è parte di una costruzione logica.
Ron Carter, da parte sua, offre una lezione magistrale di contrabbasso: non solo tiene il tempo, ma costruisce armonie, suggerisce direzioni, crea tensioni. Il suo interplay con Foster è semplicemente perfetto. Il batterista, con il suo tocco incisivo e la capacità di variare dinamiche e timbri, dà energia costante al trio, sostenendo e stimolando il sax di Henderson.
Il disco si chiude con una poderosa The Theme di Miles Davis, una breve esplosione di energia che sembra quasi un “ciao” al pubblico, un ringraziamento, ma anche una conferma: il jazz è vivo, e in mano a musicisti come questi può ancora sorprendere, scuotere, ispirare.
Live at the Village Vanguard non è solo un documento dal vivo. È anche un manifesto estetico. Henderson, dopo anni di attività, sceglie di esprimersi in modo essenziale, togliendo più che aggiungendo. La sua musica qui è priva di orpelli, sincera, rigorosa e allo stesso tempo appassionata. Non ci sono effetti speciali, ma solo l’incontro tra tre musicisti che ascoltano, reagiscono e costruiscono qualcosa di vivo, momento per momento.
Non a caso, questo album viene spesso citato come uno dei migliori live jazz degli anni ’80, in un’epoca in cui il jazz cercava di rinnovarsi tra le correnti del neo-bop, della fusion e delle nuove avanguardie. Henderson dimostra che non serve cercare nuove etichette: basta suonare bene, con sincerità, e con una voce autentica.
In un’epoca in cui il jazz viene spesso confinato in nicchie, o diluito in fusioni talvolta poco convincenti, un album come Live at the Village Vanguard ci ricorda l’essenza di questa musica: l’improvvisazione, l’interazione, la sincerità del gesto. Joe Henderson non ha bisogno di effetti, né di tecnologie. Solo un sax, un basso, una batteria e uno spazio dove la musica può accadere davvero.
Chi vuole capire la grandezza del jazz acustico moderno, la potenza del formato trio e la profondità espressiva di uno dei più grandi tenorsassofonisti della storia, troverà in questo disco un compagno fedele. Un disco da ascoltare con attenzione, magari la sera, a luci basse, lasciandosi trasportare nel cuore del Village Vanguard, dove la musica – ancora oggi – sa toccare l’anima.

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