In quel breve set televisivo di circa venti minuti, Rollins, Hall e il contrabbassista Bob Cranshaw si muovono con una libertà quasi temeraria, ma sempre calibrata. Rollins è il fuoco creativo, l’instancabile improvvisatore che piega le melodie al proprio linguaggio. Jim Hall, invece, è il contrappunto perfetto: riflessivo, misurato, quasi zen. Non lo si sente mai forzare una nota, ma ogni intervento è una carezza che modifica il clima dell’interplay.
Jazz Casual non era un programma qualsiasi. Era una delle poche vetrine televisive dedicate al jazz autentico, senza compromessi, e ospitò artisti come Mingus, Basie, Coltrane, Cannonball Adderley. Ma il set di Rollins nel 1962 ha un valore particolare: arriva in un momento delicato della sua carriera. Dopo la leggendaria pausa sul Williamsburg Bridge (iniziata nel ’59), Rollins torna alla ribalta con idee rinnovate, più essenziale, più spigoloso, più lirico allo stesso tempo.
Jim Hall, già noto per il suo stile discreto e profondo, offre il supporto ideale. Il suo modo di accompagnare — con accordi sospesi, contrappunti melodici e tempi larghi — diventa l’ambiente ideale in cui Rollins può respirare. È una conversazione tra pari, ma fatta anche di silenzi. Quando Rollins lascia uno spazio, Hall non lo riempie con ego: lo colora, lo completa, lo rispetta.
Il rapporto musicale tra i due non si esaurisce nel programma televisivo. Poco dopo, Rollins incide uno dei suoi dischi più celebrati: The Bridge (1962), in cui Jim Hall è parte fondamentale del quartetto. Anche lì, la formula è simile: nessun piano, molta aria tra le note, e una continua ricerca di equilibrio tra improvvisazione e architettura sonora.
Quello che li univa era la ricerca della libertà senza anarchia. Rollins, con la sua energia incontenibile, trovava in Hall una bussola silenziosa. Hall, a sua volta, si apriva al rischio dell’improvvisazione pura, senza nascondersi dietro strutture rassicuranti. Entrambi erano — a modo loro — maestri dell’arte di dire tanto con poco.
Guardare il video è come entrare in una sala prove privata, con la differenza che ogni nota è precisa, necessaria. Rollins è vestito in modo sobrio, Hall sembra quasi intimidito dalla telecamera. Ma quando iniziano a suonare, l’interazione è pura telepatia.
Non è uno show, è un’esplorazione. Non è un’esibizione muscolare, ma un gioco mentale tra due sensibilità diverse e complementari.
Nel 1962, il mondo del jazz era in piena trasformazione: tra il post-bop e il free, tra l'elettrico nascente e le ultime tracce del cool. In mezzo a tutto ciò, Rollins e Hall scelsero l’intimità. Scelsero di raccontarsi con calma, con pochi strumenti e molti silenzi.
Un’eredità che ancora oggi ci ricorda che nel jazz, come nella vita, la forza non sta nel volume, ma nell’ascolto.

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