Addio a Feya Faku, voce poetica del jazz sudafricano

(Foto tratta da Facebook)

La notizia della morte di Feya Faku ha scosso profondamente la comunità jazzistica internazionale. 

Nato a New Brighton, sobborgo di Port Elizabeth, nel 1962, Faku è stato per decenni uno dei musicisti più rispettati e amati del panorama jazzistico sudafricano e non solo. 

La sua tromba ha saputo intrecciare lirismo e denuncia, spiritualità e memoria, facendo da ponte tra la tradizione musicale Xhosa e il linguaggio universale del jazz.

Faku ha iniziato a suonare in un’epoca segnata dall’apartheid, formandosi musicalmente al leggendario Dorkay House di Johannesburg e all'Università di Natal, sotto la guida di figure cruciali come Darius Brubeck. La sua carriera è decollata negli anni ’90, quando è diventato uno dei musicisti più richiesti da bandleader sudafricani come Bheki Mseleku, Abdullah Ibrahim e Zim Ngqawana, ma anche da artisti internazionali che riconoscevano in lui una voce autentica, capace di raccontare l’anima profonda del continente africano.

La tromba e il flicorno di Faku avevano un suono inconfondibile: caldo, meditativo, spesso intriso di malinconia ma mai privo di speranza. La sua musica si radicava nel jazz modale, ma era sempre attraversata da echi di canti popolari, inni spirituali, melodie tradizionali sudafricane. Nei suoi dischi da leader – tra cui Homage (1999), Le Ngoma (2005), The Spirit of Song (2012), solo per citarne alcuni – Faku ha saputo dare vita a un linguaggio elegante e profondo, che parlava tanto al cuore quanto alla mente.

Nel corso della sua carriera ha collaborato con artisti europei, asiatici e americani, portando con sé ovunque quella forma di spiritualità musicale che sembrava uscire direttamente dal suolo africano. Tra i suoi progetti più acclamati c’è l’album Road to Gorée con il pianista norvegese Andreas Loven e numerose partecipazioni a festival internazionali, dove il pubblico lo accoglieva con calore e rispetto.

Ma Feya Faku non è stato solo un eccellente musicista: è stato anche un maestro generoso, un mentore per le giovani generazioni di musicisti sudafricani, un uomo di grande umiltà e sensibilità. La sua morte lascia un vuoto immenso, ma il suo lascito musicale resta come una benedizione: un invito ad ascoltare più profondamente, a riconoscere la bellezza della resilienza, a non dimenticare mai da dove veniamo.

In un’epoca in cui il jazz cerca nuove identità, Faku ha mostrato che la vera modernità passa dal radicamento. Che innovare non significa dimenticare, ma portare nel presente ciò che il passato ci ha donato. La sua musica resta con noi come un faro acceso nella notte, una preghiera sonora che continua a vibrare nel tempo. 

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