Cinquant’anni fa Gil Evans reinventava Jimi Hendrix

Nel 1975, Gil Evans pubblica uno dei dischi più insoliti e visionari della sua carriera: The Gil Evans Orchestra Plays the Music of Jimi Hendrix

Non è un tributo convenzionale, né un semplice esercizio di stile. È, piuttosto, il tentativo di trasportare l’universo sonoro di Hendrix in una nuova dimensione, quella dell’orchestrazione jazz, senza perdere l’anima ribelle, onirica e tragicamente libera di quelle composizioni nate per la chitarra elettrica.

L’idea di fondo non nasce come operazione postuma: nel 1970, Evans e Hendrix avevano realmente pianificato una collaborazione. I due si erano incontrati e stimati reciprocamente. Evans, che da sempre aveva avuto un orecchio attento per le nuove voci della musica — basti pensare alla sua lunga e fruttuosa collaborazione con Miles Davis — vedeva in Hendrix molto più di un semplice chitarrista rock. 

Ne intuiva la forza creativa, il lirismo nascosto, la possibilità di espandere il suo linguaggio attraverso l’orchestrazione. Purtroppo, la morte improvvisa di Hendrix nel settembre di quello stesso anno pose fine al progetto, lasciando però nel cuore di Evans il desiderio di portare comunque avanti quel dialogo mai nato.

Cinque anni dopo, Gil Evans riunisce un’orchestra allargata e costruisce un vero e proprio viaggio musicale attraverso alcuni dei brani più emblematici del repertorio hendrixiano. Non si tratta di semplici cover: ogni brano viene scomposto, ricomposto, vestito di colori nuovi. Il lavoro di arrangiamento è tanto rispettoso quanto audace: Evans si avvicina alla musica di Hendrix con lo spirito del compositore, e non con quello del fan. Cerca l’essenza profonda di quei brani — il senso melodico, le atmosfere visionarie, le dinamiche interiori — e li traduce in un linguaggio orchestrale ricchissimo.

Brani come Voodoo Child (Slight Return), Up from the Skies, Angel, Crosstown Traffic, 1983… (A Merman I Should Turn to Be) e Little Wing assumono nuove forme. Le linee vocali diventano temi per gli ottoni o i legni, gli assoli chitarristici si trasformano in sezioni collettive, gli effetti sonori vengono restituiti attraverso l’orchestrazione timbrica. Il risultato è una musica sospesa tra jazz orchestrale, psichedelia, funk e colore cinematografico. Evans non cerca mai di imitare Hendrix, ma piuttosto di evocare il suo spirito, la sua tensione tra caos ed estasi.

L’orchestra, come sempre nelle mani di Gil, è uno strumento fluido. Accanto a veterani della scena newyorkese come David Sanborn (sax alto), Billy Harper (sax tenore), Howard Johnson (tuba), Tom Malone (trombone), Lou Marini (sax) e Warren Smith (percussioni), troviamo anche il chitarrista giapponese Ryo Kawasaki, che in alcuni momenti tenta di raccogliere la sfida di evocare il fantasma di Hendrix, senza mai volerlo sostituire. I synth e le tastiere di Pete Levin danno un sapore ancora più visionario alle atmosfere, sottolineando l’aspetto quasi cosmico di alcune composizioni.

Il disco si apre con una lunga versione di Angel, uno dei brani più lirici di Hendrix, che Evans trasforma in una suite in lento crescendo, avvolgente e rarefatta. Voodoo Child è invece decostruito e riscritto in chiave orchestrale, mantenendo il groove ma spostandolo su altri piani ritmici. Ma è nella lunga 1983… (A Merman I Should Turn to Be) che Evans si spinge più lontano, restituendo tutto il carattere psichedelico e narrativo del brano attraverso una scrittura che mescola improvvisazione, struttura e soundscape.

L’album, all’epoca, ebbe una ricezione piuttosto tiepida. Troppo jazz per i fan di Hendrix, troppo elettrico e “rockeggiante” per una parte del pubblico jazz. Eppure, col tempo, è diventato un oggetto di culto: non solo come esperimento musicale riuscito, ma come esempio di come due mondi, due linguaggi apparentemente inconciliabili, possano incontrarsi su un terreno comune. Gil Evans, del resto, era maestro nel trovare spazi tra i generi, nel far dialogare l’America di Ellington con le nuove sensibilità del suo tempo. In questo album, porta il jazz orchestrale oltre i suoi limiti consueti, inseguendo il sogno visionario di un artista scomparso troppo presto.

A quasi cinquant’anni dalla sua uscita, The Gil Evans Orchestra Plays the Music of Jimi Hendrix resta un documento prezioso, forse ancora poco ascoltato, ma di grande ricchezza. È il suono di un’epoca che cercava connessioni, che sfidava le etichette, che guardava al futuro attraverso la lente della libertà espressiva.

Un disco da (ri)scoprire con attenzione, in cui jazz e rock non si sfidano, ma si ascoltano.

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