I called him Morgan - L’ultima notte di Lee Morgan

Il 19 febbraio 1972, una tempesta di neve colpiva New York. In un club nel Lower East Side, lo Slug’s Saloon, il pubblico si stava lentamente raccogliendo, sfidando il gelo per ascoltare uno dei più talentuosi trombettisti dell’epoca: Lee Morgan. 

Nessuno poteva immaginare che quella sarebbe stata la sua ultima esibizione. Quella notte, Lee Morgan morì, ucciso da un colpo di pistola sparato dalla donna che più di tutte gli aveva salvato la vita: sua moglie, Helen More.

Quello che successe quella sera è rimasto nella memoria collettiva del jazz non solo come un episodio tragico, ma come un simbolo ambiguo e doloroso di un’epoca. Una fine tanto drammatica quanto assurda, che racconta non solo una morte, ma anche una storia di amore, dipendenza, redenzione e disillusione.

Lee Morgan era nato a Filadelfia nel 1938. A soli 18 anni entrava nell’orchestra di Dizzy Gillespie, e poco dopo diventava uno dei membri più brillanti dei Jazz Messengers di Art Blakey, contribuendo con la sua energia e il suo lirismo a dischi fondamentali come Moanin’. Era un talento straordinario, una tromba luminosa nel firmamento del hard bop, capace di fraseggi taglienti, groove irresistibili, e di una sensibilità melodica unica.

Ma dietro il successo, Morgan lottava con i suoi demoni. Negli anni Sessanta, la dipendenza dall’eroina lo aveva quasi distrutto. Aveva perso ingaggi, amici, dignità. Era diventato uno dei tanti fantasmi che si aggiravano per le strade di Harlem, consumati dalla droga e dimenticati dal mondo della musica.

Fu proprio in quel momento che nella sua vita entrò Helen More, una donna più grande di lui, di umili origini, che si prendeva cura di giovani musicisti in difficoltà. Helen lo trovò, lo curò, lo nutrì, lo fece disintossicare. Gli restituì una casa, degli abiti, la possibilità di suonare di nuovo. In breve tempo, Morgan tornò in scena, ed esplose di nuovo.

Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, Morgan tornò a pubblicare dischi eccellenti, tra cui il potente The Sidewinder (in realtà registrato prima della caduta, ma tornato simbolicamente alla ribalta) e poi Live at the Lighthouse, Caramba!, The Sixth Sense, Search for the New Land – album pieni di fuoco, di ricerca, di energia rinnovata.

Helen era sempre con lui. Si occupava del lato pratico, lo seguiva nei concerti, parlava con i club, gestiva la sua rinascita. Ma con la risalita, cominciarono le tensioni. Lee si stava riavvicinando a un mondo più mondano, più giovane, più libero. Aveva iniziato una nuova relazione con una donna più giovane. Voleva che Helen uscisse dalla sua vita. Ma non era così semplice. Non lo era per lei, che aveva dato tutto per salvarlo. Non lo era per lui, che oscillava tra riconoscenza, senso di colpa e desiderio di libertà.

Quella sera di febbraio, Lee Morgan stava suonando allo Slug’s, un locale celebre tra i jazzisti newyorkesi, ma anche notoriamente malfrequentato. La band aveva appena iniziato il secondo set quando Helen entrò nel club. Aveva discusso con lui poco prima. Secondo alcuni testimoni, Morgan le aveva chiesto di andarsene. Altri dicono che le avesse rivolto parole dure, umilianti. Ci fu un litigio. Poi, all’improvviso, un colpo di pistola.

Helen aveva portato con sé l’arma, una piccola pistola che teneva in borsa. Le cronache raccontano che dopo aver sparato, non cercò di fuggire. Restò lì, confusa, sotto shock. Lee Morgan si accasciò, sanguinante. L’ambulanza impiegò oltre un’ora ad arrivare, bloccata dalla neve. Quando finalmente giunse, era troppo tardi. Aveva 33 anni.

L’omicidio di Lee Morgan fece notizia, ma non fu uno scandalo come ci si potrebbe aspettare. Per molti nel mondo del jazz, fu solo l’ennesimo tragico capitolo in una lunga serie di vite spezzate: Charlie Parker, Billie Holiday, Eric Dolphy, Clifford Brown. 

Helen venne arrestata, ma passò solo pochi anni in prigione. Quando uscì, scomparve quasi completamente dalla scena pubblica. Solo negli anni ’90, ormai anziana e malata, accettò di parlare della sua versione dei fatti. Fu intervistata dal docente di musica Larry Reni Thomas, che registrò una lunga conversazione in cui Helen raccontava la sua vita, la sua relazione con Lee, e quella sera terribile. Quelle registrazioni divennero la spina dorsale del documentario I Called Him Morgan di Kasper Collin (2016), che ridiede voce a entrambi, con una delicatezza e un’empatia rare.

Il documentario non assolve né condanna. Racconta una storia d’amore, dipendenza e disillusione. Mostra quanto può essere sottile il confine tra salvezza e distruzione, tra la cura e il possesso, tra il genio e la fragilità.

La morte di Lee Morgan resta uno dei momenti più tragici e simbolici della storia del jazz. Non solo per la perdita di un artista straordinario, ma perché riflette una serie di nodi profondi: il peso della dipendenza, il ruolo delle donne nella scena musicale, la brutalità della marginalizzazione, il silenzio su certe ferite.

Ma la sua musica è rimasta. Ancora oggi, la sua tromba risuona potente, moderna, viva. Ogni volta che si ascolta l’intro di The Sidewinder, o le linee melodiche struggenti di Search for the New Land, si sente la voce di un artista che aveva ancora molto da dire. E che, forse, continua a parlare — da quel club gelido del ’72, fino a noi.

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