È una collaborazione che va ben oltre la tradizionale relazione tra leader e arrangiatore. Quella tra Ellington e Strayhorn è stata una fusione di menti musicali, un’alchimia rara in cui l’ego lascia spazio alla musica, e in cui la visione si fa collettiva, pur rimanendo straordinariamente personale.
È il 1938. Billy Strayhorn è un giovane compositore e pianista di Pittsburgh, cresciuto nell’ammirazione sconfinata per Duke Ellington. Ha scritto un brano intitolato Something to Live For, che riesce a far ascoltare a Ellington grazie a un amico comune. Il Duca, impressionato dalla maturità armonica e lirica di questo ragazzo poco più che ventenne, lo invita a New York. Una volta lì, Strayhorn si presenta con un altro brano, Lush Life, che diventerà uno standard immortale. Il resto è storia.
Da quel momento in poi, Billy Strayhorn diventa parte integrante dell’universo Ellington, tanto da essere descritto come la sua "mano sinistra, la sua mano destra, il suo cervello a volte".
Non è sempre facile, nemmeno per gli esperti, distinguere dove finisce Ellington e dove comincia Strayhorn. Il motivo è semplice: i due si completavano a vicenda. Ellington aveva un senso orchestrale teatrale, un’intuizione istintiva per il timbro e la personalità dei suoi musicisti. Strayhorn portava con sé un’eredità armonica sofisticata, in parte europea, in parte debitrice al Gershwin più colto, ma sempre filtrata attraverso un lirismo profondamente afroamericano.
Prendiamo Take the “A” Train, forse il brano più celebre dell’orchestra Ellington. Molti lo credono composto da Duke stesso, ma è opera di Strayhorn, e non è un caso. Il brano è diventato il tema dell’orchestra proprio perché rappresentava quell’unione stilistica perfetta: swing deciso, melodia orecchiabile, e un’impalcatura armonica ricca e sottile.
Quella tra Ellington e Strayhorn è una relazione che sfugge alle categorie convenzionali. Non c’era invidia, né competizione. Strayhorn era un uomo riservato, schivo, ma fermamente consapevole del proprio valore. Sapeva di non aver bisogno dei riflettori. Ellington, da parte sua, era generoso nel riconoscere il contributo dell’amico, anche se per molto tempo Strayhorn restò in ombra agli occhi del grande pubblico.
Ci sono partiture interamente scritte da Strayhorn che portano la firma di Ellington, ma anche molte opere nate da un dialogo continuo tra i due. Un esempio lampante è Such Sweet Thunder, la suite ispirata ai personaggi shakespeariani, dove Ellington e Strayhorn plasmano la musica come un unico autore, oscillando tra ironia, dramma e introspezione.
La figura di Strayhorn è anche profondamente moderna. Era apertamente omosessuale in un’epoca in cui farlo era tutt’altro che semplice, soprattutto nel mondo dello spettacolo afroamericano. La sua dignità silenziosa, il suo attivismo discreto e la sua coerenza morale lo rendono oggi un simbolo non solo musicale, ma anche umano.
Ellington, da parte sua, lo amava come un fratello. Nella dedica che gli fece dopo la sua morte, in quel brano struggente che è And His Mother Called Him Bill (1967), si coglie tutto il dolore per una perdita non solo artistica, ma esistenziale.
Il lascito di questa coppia creativa è immenso. Le loro composizioni – Chelsea Bridge, Isfahan, Lotus Blossom, A Flower Is a Lovesome Thing, The Star-Crossed Lovers – costituiscono una parte essenziale del canone jazz. Ma, più ancora, la loro collaborazione ha ridefinito cosa significa fare musica insieme: non un compromesso, ma un incontro di libertà.
In un mondo spesso dominato da protagonismi e individualismi, Ellington e Strayhorn hanno dimostrato che la grandezza può essere condivisa, e che il vero capolavoro nasce quando due visioni si uniscono in una sola voce, capace di parlare all’anima.

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